Volvera 2011 | |||||
COMUNE DI VOLVERA (Torino)
"Battaglia della Marsaglia " 2011
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Conferenza | |||||
Recensione della mostra | |||||
Foto della battaglia | |||||
Foto della mostra | |||||
Premiazione | |||||
Fiaccolata - Croce Baroni |
Conferenza sulla Battaglia della Marsaglia
Capitano Carosi Oreste e il Sindaco di Volvera Attilio Vittorio Beltramino |
BATTAGLIA DELLA MARSAGLIA - 4 ottobre 1693
L’eco delle ultime salve di fucileria rotola ancora su questa piana nebbiosa rimandato dalle vicine montagne della val Sangone e più lontano dalla cerchia delle Alpi che fanno corona alla città di Torino. Le colorate schiere di figuranti che hanno animato questa ennesima rievocazione storica di un fatto d’armi vecchio di tre secoli si allontanano al passo ritmato dei loro tamburi. Pochi istanti ancora ed il silenzio riprende possesso di questa triste campagna attorno a me, e mi permette di riflettere con commossa attenzione sul monito che mi giunge da una lapide posta all’ingresso di una cascina, una delle tante sparse sul territorio compreso tra Volvera, Orbassano, Piossasco: “Attento uomo, questa tranquillità non è pace, questo silenzio non è spento. Si sentono ancora i gemiti delle agonie dei giovani d’Europa massacrati il 4 ottobre 1693. Nel tuo Paese ritieniti fortunato, allarga le mani affinché in altre terre, in altre date, non si senta nel vento il rimorso dell’umanità”.
La cascina è quella detta della Marsaglia, e da essa prese nome la battaglia che poco fa abbiamo visto rievocare con mezzi ben più ridotti ma con immutata commozione, e fortunatamente senza vittima alcuna, mentre tre secoli or sono di vittime qui attorno se ne contarono tante, troppe: c’è chi dice dodici,. tredici mila, tutte accatastate su una superficie estremamente limitata: quattro chilometri di fronte per non più di due di profondità; da una parte c’erano i francesi che volevano operare uno dei loro – troppi – tentativi di invadere il Piemonte; dall’altra le truppe piemontesi del Duca di Savoia Vittorio Amedeo II con i loro alleati Austriaci, Spagnoli, Inglesi e Scandinavi che si opponevano ad essi. E si massacrarono a vicenda senza pietà, senza il benché minimo senso di umanità fino a trafiggere i corpi di chi era caduto e non ancora morto poteva fingere di esserlo, fino ad uccidere a freddo quelli che si davano prigionieri, con una crudeltà che neppure i più selvaggi tra i figli di Caino avrebbero concepito.
Mi allontano dalla cascina della Marsaglia e poco distante raggiungo verso Orbassano un’altra località che per la storia fu il vero epicentro di quei sanguinosi fatti: la Croce Barone, o Baronis, di cui non si sa altro che venne eretta usando due tronconi di “legno incatramato” per ricordare un ignoto eponimo o, meglio, i poveri morti di una parte e dell’altra che qui caddero. In seguito, al suo posto venne eretta una austera grande croce di pietra sul cui braccio orizzontale mi sforzo di decifrare una frase latina che vi è incisa: “ Victis et victoribus in Deo resurrecturis”, parole scandite a bassa voce non da me, ma da una persona che mi trovo accanto senza che mi sia accorto prima della sua presenza. E’ un uomo di età indefinibile, basso di statura e piuttosto magro; veste una lunga palandrana nera sulla quale spicca una facciola bianca, e sul capo ha un tricorno dalle punte poco pronunciate. In poche parole sembra proprio un sacerdote in costume dell’epoca dei figuranti che erano qui poco fa; forse è rimasto indietro come me per fare qualche silenziosa riflessione da solo ed in raccoglimento.
Comunque sia lo saluto con deferenza dandogli del lei e mi permetto di tradurre “Ai vinti ed ai vincitori che risorgeranno nel Signore”. “Bravo, vedo che la nostra bella lingua latina non è morta del tutto neppure alla vostra età così lontana in ogni senso dall’epoca in cui il mondo intero si esprimeva nella lingua di Cicerone. Io mi sono tratto in questi luoghi per rievocare questo atroce fatto d’armi che ebbe luogo quando ero ancora in seminario e vivevo in Lombardia sotto gli Spagnoli, quindi dalla stessa parte del vostro Duca, tanto che molti miei corregionali sono caduti qui attorno. Sto raccogliendo memorie storiche di questa epoca per poi farne un compendio da dare alle stampe non già per acquistare un modesto merito personale di storiografo, ma per lasciare ai posteri memoria quanto più precisa dei fatti che prelusero alla nostra unità nazionale da tanti auspicata e ancora oggi da pochi perseguita”.
Dire che mi sia trovato piuttosto perplesso di fronte ad una così seria dissertazione è dire poco; o questo signore ha preso la sua parte di figurante troppo sul serio e veste panni non suoi, o io sto dando i numeri e parlo con un fantasma. Stiamo al gioco e vediamo fino a che punto il mio interlocutore intende spingere la sua finzione. Passo al voi che in passato si dava alle persone di riguardo prima che subentrasse il lei, e senza assolutamente lasciar trasparire ironia di sorta cerco di
entrare rispettosamente in discorso “ Reverendo, mi fa un piacere immenso poter raccogliere da un testimone come voi che, se non ebbe la ventura di trovarsi presente di persona su questo tragico teatro di battaglia, poté esserlo pochi anni dopo, quando i poveri resti degli innumerevoli caduti ancora affioravano dal terreno su cui ci troviamo e quando il terribile odore di decomposizione che esalava da esso tutto all’intorno non si era, forse, estinto del tutto. Quei resti e quell’odore che, come ho appreso dalla memoria dei relatori che ne hanno tramandato il doloroso ricordo, avevano costretto gli abitanti dei paesi vicini a sospendere per anni i lavori dei campi e addirittura ad allontanarsi dalle loro case per molti giorni. Soprattutto, reverendo, vorrei conoscere obiettivamente le notizie che della Marsaglia sono giunte fino a me quasi esclusivamente da quel che ne venne tramandato di pugno del vincitore, il prode e sussiegoso Catinat, forse un po’ troppo parziale verso di sé nel memoriale indirizzato al suo sovrano e destinato a lasciare traccia sul gran libro della Storia. A sentire lui, per citare un particolare, i caduti dalla parte dei francesi furono non più di 1.800 mentre i piemontesi ed i loro alleati avrebbero dovuto piangerne circa 10.000 a cui andrebbero aggiunti moltissimi prigionieri per tacere delle devastanti perdite di materiale bellico, mentre da altre relazioni si apprende che i confederati perdettero non più di 8.000 uomini contro 4.000 francesi, ahimè, sempre troppi in ogni caso, ma quel che pare più strano senza che i vincitori al termine del conflitto prendessero stabile possesso del territorio”. Sommessa risposta del reverendo, che si mostra un po’ troppo preparato ed edotto sui fatti per apparirmi persona ben altro che dilettante cultore di vicende storiche e volenteroso figurante. “Troppi, dite bene, e poi per ottenere quali risultati? Dopo essersi dichiarato vincitore su tutto il campo, il prode Catinat si insediò per alcuni giorni nella cascina della Marsaglia per scrivere le sue memorie da spedire a Parigi a volta di corriere, e dopo qualche settimana rientrò in Francia armi e bagagli per passare l’inverno. Gli Alleati, che in un primo momento si erano ritirati verso Torino e si erano attestati dietro il Po e le fortificazioni di Moncalieri, rimasero praticamente padroni del territorio e tutto fu rimandato alle future vicissitudini, informate però, queste ultime, dalla constatazione che sicuramente Luigi XIV dovette fare nel riconoscere nel piccolo Piemonte un osso ben più duro da rodere di quel che lui e Louvois suo ministro della guerra avevano stimato in preparazione della campagna, quando avevano affidato al Catinat l’incarico di spazzare via con ogni mezzo e senza pietà quei miserabili piemontesi che osavano impedire alla Francia di dilagare per tutta l’Europa”.
A questo punto temo di dover scoprire le mie carte, e col massimo rispetto mi rivolgo al mio strano interlocutore con una trepidante interrogazione: “Non so come, reverendo, ma credo di aver capito sia pure con somma meraviglia e malcelato timore che la Vostra Persona non appartiene propriamente alla mia epoca ed al mio mondo, ma che, per qualche inopinato fenomeno medianico al quale credevo di essere refrattario, io ho il coraggio, l’improntitudine...di parlare nientemeno che con uno dei più grandi storiografi della mia Italia, quella mitica figura di letterato del Rinascimento di nome Ludovico Antonio...” – “Muratori, sì per servirvi, sono proprio io; ma vi prego di non aver timore. Non tutte noi fantasime (So che adesso ci chiamate fantasmi, al maschile) siamo cattive e godiamo nel terrorizzare voi ancora vivi. Io in particolare cerco di raccogliere dovunque posso notizie sulle vicende storiche di questa nostra Italia per arricchire il modesto archivio della mia mente (non dimentichiamo che la mente è immortale!) e credetemi, godo ogni volta che mi sia dato di farlo nel poter scambiare informazioni con chi sappia darmene, come ora, purché veritiere. Sono nato nel 1672 a Vignola; ho studiato appassionatamente le Scienze Umanistiche con i pochi mezzi che la mia umile condizione mi mise a disposizione, ed ancora vivente ebbi l’onore di veder riconosciute e lodate le mie modeste opere letterarie. Dopo la mia morte, avvenuta nella Grazia di Dio nel 1750, sono andato nella casa del Padre dove mi trovo inutile dire superlativamente bene, ma essendomi rimasta attaccata addosso qualche anomala particella di debolezza umana, ho conservato una parte della curiosità che in vita mi permise di scrivere , tra le altre opere, quei ponderosi Annali d’Italia che Cesare Balbo, vissuto molti anni dopo di me, ebbe la bontà di lodare fino a mettermi in imbarazzo. Tutto ciò lo seppi direttamente da lui giacché ebbi la ventura di incontrarlo Lassù, cosa non facile né frequente”
“Cesare Balbo! E’ vero: ricordo bene come con piena ragione disse di voi : . Tutte espressioni con le quali modestamente da par mio concordo pienamente, ma ora reverendo toglietemi se potete una piccola curiosità: come è possibile che, mentre mostravate senza difficoltà di avere memoria di tutto ciò che in questa nostra Italia è accaduto prima di voi e, almeno per sommi capi, tutto ciò che Balbo vissuto circa un secolo dopo vi avrà sicuramente riferito, mi par di credere che purtroppo non sappiate nulla di quel che è stato del nostro Paese dal 1800 in poi. Debbo credere che Lassù non è così facile, come viceversa ci hanno fatto sapere Ulisse, Enea, Dante e forse altri, spingere lo sguardo delle vostre anime (si fa per dire) in avanti, verso le età successive magari cercando di incontrare qualche testimone più aggiornato?”
“Caro signore, all’inizio di questo nostro discorso avrete certamente notato che nel parlare del mio incontro con il grande Balbo io dissi che quella fu cosa non facile né frequente; ed è così: Lassù, come dice lei, siamo ormai talmente tanti che incontrare qualcuno di nostro gradimento è infinitamente più difficile che trovare il classico ago in un pagliaio. Per questo vorrei approfittare della vostra cortese disponibilità per avere notizie sugli eventi della nostra storia dal 1853 (morte di Balbo) ad oggi, inizio secolo XXI. Dal canto mio posso dirvi che ho sempre serbato ammirazione verso casa Savoia per la tenacia ed il coraggio con cui i suoi rappresentanti lottarono per passare da semplici Duchi a Re attraverso secoli di estrema convulsione politica, e contemporaneamente perseguirono lo scopo ultimo di unificare la Penisola e darle il nome di Italia, non più contesa e maltrattata terra di conquista ma nazione libera e indipendente. Ricordo ancora quando proprio il vostro Vittorio Amedeo II assunse solennemente il titolo di re di Sicilia il 22 settembre 1713 (io avevo già trentasette anni) mai stanco di tessere intrighi e voltafaccia pur di ottenere il fine ultimo per cui i Savoia si sentivano investiti da sempre. Pensate di quanta tenacia dovette dar prova proprio lui, mentre combatteva i Valdesi perché obbligato a farlo dal prepotere del re di Francia che lo considerava nient’altro che un povero vassallo, e contemporaneamente trattava in gran segreto con gli alleati della lega di Augusta: Austria, Spagna, Inghilterra, Svezia, Olanda vale a dire tutti gli stati europei che non tolleravano lo strapotere francese, ben sapendo che quel gran segreto era continuamente e ferocemente insidiato e vanificato dalle spie di Luigi XIV , la prima delle quali era addirittura sua madre, la Madama Reale Giovanna Battista di Savoia-Nemours. Ciò spiega la cattiveria con la quale, proprio per punire il Piemonte per uno dei suoi voltafaccia, diedero prova i francesi che avevano varcato le Alpi con il viatico del loro ministro della guerra Louvois , cosa che coscienziosamente il prode Catinat ordinò di attuare al suo generale Baschvillier che senza farsi pregare distrusse ed incendiò villaggi e case fino a devastare la reggia di Venaria degno emulo del grande Attila, anche se non osò accostarsi troppo alle temibili fortificazioni della città di Torino
“A quanto ne so io, reverendo, quella abilità dei Savoia diciamolo pure un po’ equivoca di serpeggiare tra le pagine della Storia , era una condotta condivisa largamente da tutti gli Stati presenti sul territorio, anche se con massima disinvoltura e mancanza di obiettività venne etichettata negli annali col termine deprecato di : secondo il costume di casa Savoia come se fosse una nostra esclusività nazionale. L’ultimo di quei voltafaccia storici l’ho visto attuare io da ragazzo l’otto settembre 1943 e credo che oltre non si possa più andare, tanto ebbe esiti tragici, a maggior ragione perché dopo di esso i Savoia abdicarono e l’Italia scelse la via della Repubblica”.
“Avete ragione: c’è da augurarsi di tutto cuore che non ci sia più bisogno di manovre occulte o palesi, di accordi sotto banco alle spalle dell’alleato, di guerre in ultima analisi, di guerre, anche se l’uomo sembra marchiato dalla nascita col segno di Caino e non possa fare a meno di invadere, distruggere e uccidere, come se nel dizionario non esistessero altri verbi come amare, lavorare in pace e lodare il Signore. Con il che, caro signore sono costretto a salutarvi giacché il mio tempo è scaduto, e fa d’uopo che io torni Lassù. Addio, e grazie della simpatica e dotta compagnia”.
Il tempo di un batter di ciglia ed il mio interlocutore è scomparso. Mi ritrovo solo, immerso nella nebbia della Marsaglia frastornato ed incredulo, mentre lontano si spegne l’eco dei tamburi. Anche l’odore poco gradevole della polvere pirica si è dissolto nella nebbiolina che si stende su questa triste campagna insieme al frastuono delle armi da fuoco generato dai loro spari a salve: Sono ancora perplesso per l’incontro di poc’anzi e, per riprendere contatto con una qualsiasi realtà, mi soffermo sulle mie modeste cognizioni oplologiche involontariamente messe alla prova sul tipo di armi che ho visto tra le mani dei figuranti, particolarmente sugli archibugi: tutte onestissime repliche moderne, è naturale, ma con un piccolo difetto di anacronismo. Infatti quelli che poco fa hanno tuonato e sfumacchiato erano tutte repliche, appunto, e in quanto tali erano azionate da un acciarino “a luminello”, ovvero dotate di un meccanismo di accensione che sarebbe entrato in servizio un buon secolo dopo la data del 1693, mentre gli archibugi “veri” della Marsaglia erano “a miccia”, vale a dire attivati per mezzo di una cordicella trattata particolarmente, in grado di rimanere accesa una volta innescata, miccia appunto a lentissima combustione. L’archibugiere doveva sempre badare che questa non si spegnesse, soffiandoci su di frequente, e quando giungeva il momento di fare fuoco la portava a contatto con la carica di lancio attraverso il forellino, detto focone, appositamente ricavato nella culatta e, se andava tutto bene, non pioveva tanto da bagnare la miccia e non si era troppo disturbati, il colpo partiva ed era un colpo di efficacia terribile se giungeva a segno a breve distanza, con una palla di piombo di quasi due centimetri di calibro ed una notevole forza d’urto. C’era però da fare i conti con la laboriosità del ricaricamento dell’arma se si volesse ripetere il tiro, ed ove questo nel vivo di una battaglia e magari già a contatto diretto con l’avversario non fosse cosa possibile si ricorreva allora alla baionetta, altro terribile mezzo di offesa, ma che nella realtà storica finiva, con il suo primitivo sistema di innesto, col precludere del tutto l’uso balistico dell’archibugio. infatti il manico di legno delle baionette di quell’epoca era foggiato a tronco di cono tanto da entrare a forza nella bocca dell’arma e da rimanervi solidale trasformandola in una specie di lancia acuminata, mentre ovviamente rendeva impossibile sparare.
Mi permetto ancora di riflettere con la massima obiettività sulla genialità vera o presunta dei protagonisti di quel tragico fatto d’arme in materia di tattica e di strategia: Catinat e Vittorio Amedeo II. Il primo, forte dell’omogeneità e dell’addestramento oltre che del numero delle sue truppe, si mosse con sprezzante disinvoltura tra le sue solide basi in val di Susa e val Chisone, la roccaforte di Pinerolo e la piana attorno alla Staffarda dove pochi anni prima aveva conseguito una modesta vittoria, senza mostrare alcuna astuzia tattica da fargli meritare il confronto con i grandi condottieri prima e dopo di lui. Devo ammettere che il Bonaparte lo avrebbe aspramente criticato, per non parlare di altri maestri della guerra. Il duca Vittorio Amedeo, in leggero svantaggio numerico, era altresì fortemente danneggiato dalla eterogeneità delle truppe messe al suo comando dagli alleati, diverse tra loro per dottrina militare, per qualità morali per uniformi ed armamenti ma soprattutto per differenza di lingue, italiano, tedesco, svedese, inglese ed anche fiammingo, nonché per il modo di attuare i dispositivi della alleanza a seconda degli svariati interessi di ciascuno dei paesi che vi avevano aderito (spesso contrastanti se non opposte). Ci fu un momento del combattimento, verso le nove di mattina dalle parti delle Gerbole di Volvera, che Vittorio Amedeo validamente appoggiato dai suoi magnifici Dragoni Rossi e dai Valdesi, ora suoi sudditi fedeli e senza rancore dopo le persecuzioni volute da Luigi XIV, sembrò prevalere sui francesi che però si ripresero presto, e forti delle condizioni favorevoli a noi note, volsero presto a loro vantaggio e bene o male costrinsero i confederati a ripiegare verso Moncalieri. Il tutto senza sapienti intuizioni, senza fulminee manovre avvolgenti o penetranti, senza le “folgori di gloria” che meritarono ad altri condottieri l’alloro di Alessandro, di Annibale o di Cesare. Fu in effetti una piccola battaglia, ma purtroppo una tristissima strage di uomini alle armi e civili, di cavalli e di muli, per non parlare dei terribili danni al territorio, da rattristarmi ancora una volta profondamente.
Chiudo questa mia giornata con il suo intermezzo surreale ripensando a don Ludovico Antonio Muratori ed elevo un sommesso ringraziamento alla mia inguaribile ed innocente fantasia che mi permette di vivere momenti come quello senza chiedere aiuto a nessuno dei mezzi artificiali ora di moda, e volgo il passo verso Torino, città europea oltre che prima capitale d’Italia.
QUADRO STORICO ALL’ORIGINE DELLA BATTAGLIA DELLA MARSAGLIA
Nel 1687 Vittorio Amedeo II duca del Piemonte, stanco della situazione politica in cui si trovava il Ducato soverchiato dal vicino e invadente regno di Francia, aderisce segretamente alla Lega di Augusta: Inghilterra, Province unite d’Olanda, Spagna, Svezia e Sacro romano Impero, per sottrarsi alla asfissiante egemonia francese. Storica la sua accorata esclamazione:”Da lungo tempo mi trattavano come vassallo, ora mi trattano come paggio. E’ venuto il momento di mostrarmi Principe libero e onorato!”.
Dopo il trattato di Cherasco del 1630 la Francia era insediata in tutta la Val Chisone, da Pinerolo al Monginevro, e nella Val di Susa dal Monginevro a Exilles. La sua meta era quella di acquisire il Moncenisio come secondo e più facile accesso ai territori orientali, e quindi di poter attraversare il Piemonte come un comodo corridoio per imporsi sul resto dell’Europa.
Nel 1690, in seguito a ripetute sopraffazioni da parte francese, Vittorio Amedeo II il 4 giugno decide di scoprire le carte e scende in guerra contro la Francia.
Louvois, ministro di Luigi XIV (il Re Sole di Francia) invia contro il Piemonte il generale – poi Maresciallo – Catinat che il 18 di agosto vince alla Staffarda e punta attraverso il Colle delle Finestre verso Susa per conquistare finalmente il valico del Moncenisio. Per questo inscena alcune manovre diversive, e finge di preparare le sue truppe alla tregua invernale avviando invalidi ed impedimenta verso il Monginevro a partire dal 10 ottobre.
Nel corso dello stesso anno Vittorio Amedeo II, non cade nel tranello e chiede aiuto agli Alleati, ma questi non credono alla gravità della situazione e si limitano a radunare le loro forze attorno a Moncalieri con la scusa di voler proteggere Torino.
Il 2 novembre il Catinat dà ordine al suo generale Larrey di partire da Pinerolo, valicare il Colle del Sestriere, scendere fino ad Exilles e attaccare da ovest la città di Susa. Lui stesso, al comando di una seconda colonna, sale la Val Chisone fino a Finestrelle, ne scavalca il Colle nonostante la stagione ormai invernale e attacca prima Meana, ed infine Susa da Sud.
Dall’11 al 13 novembre la piazza di Susa cede all’attacco ben congegnato e soprattutto condotto con mezzi soverchianti dai francesi. Si sa che il Duca alla notizia venne colto da tale rabbia che fu costretto a rimanere a letto per tre giorni.
Susa rimarrà in mano francese fino al termine della guerra di Augusta (1696).
Nel mese di marzo del 1691 il Catinat torna ad attaccare in Valle di Susa deciso a scendere almeno fino a Rivoli. Conquista San Giorio , Avigliana e ai primi di maggio la residenza sabauda di Rivoli, saccheggiando e bruciando con ferma volontà distruttiva tutto quello che cade nelle sue mani, almeno secondo quanto gli aveva ordinato il ministro Louvois “Brulez, brulez bien leurs pays!”.
LA BATTAGLIA.
Due anni dopo, nel 1693, Vittorio Amedeo II blocca Casale, presidio francese, e assedia Pinerolo . ma si deve accontentare di occupare il contiguo Forte di Santa Brigida.
Decide quindi, contro il parere dei suoi generali di attaccare Catinat in campo aperto. Questi all’inizio dell’autunno è insediato con un forte contingente di truppe allo sbocco della Val Sangone, tra le alture di Piossasco, i paesi di Sangano e Rivalta: da qui sorveglia le mosse dei piemontesi.
Nei giorni 2 e 3 ottobre Catinat ha le sue truppe schierate a nord nella pianura compresa fra il torrente Chisola, i territori di Bruino, Sangano ed il monte di San Giorgio di Piossasco.
Di fronte ai francesi il Duca si piazza, provenendo da sud, con le forze Alleate su un fronte di circa quattro chilometri, avendo il Feldmaresciallo Caparra alla prima linea e il Principe Eugenio alla L’ala sinistra è agli ordini del Governatore di Milano Di Leganes , la cavalleria è agli ordini del Conte di Louvigny e la fanteria con il Generale Masset. Al centro il Duca dispone le truppe germaniche del Conte De Palley affiancate da Valdesi e Luterani, e conta in tutto su un complesso di circa trentamila uomini: un insieme tutt’altro che omogeneo per lingua, armamento addestramento, diversità di intenti, al contrario di Catinat che può contare su un contingente di circa quarantamila uomini, tutti bene armati, addestrati, disciplinati e condotti da generali di ottima preparazione, quali il Duca di Vendome, il Marchese De Vins e Filippo di Borbone-Vendome, ed infine è ben munito di artiglierie da campagna.
Preceduti dal nutrito fuoco di quelle artiglierie i francesi attaccano decisamente a partire dalle ore nove del mattino di quel quattro di ottobre 1693, a distanza ravvicinata assaltano alla baionetta riuscendo dopo tre tentativi a causare un primo cedimento del fronte alleato a partire dall’ala sinistra e riescono a provocare un forte senso di scoramento in tutte le truppe del Duca.
Per evitare di essere accerchiato Vittorio Amedeo II non può far altro che ordinare alle truppe alleate di ritirarsi combattendo , e anche grazie al sacrificio dei Protestanti e del Tercio di Lisbona, riesce a riparare entro le fortificazioni di Torino e Moncalieri.
Catinat resta virtualmente padrone del campo, ma solo per pochi giorni, giusto il tempo di insediarsi nel castello della Marsaglia poco distante dal luogo della battaglia per stilare il suo rapporto da inviare a Parigi, secondo il quale le perdite francesi ammontarono a non più di 1800 caduti e quelle Alleate a circa diecimila, mentre un computo più ragionevole tratta di ottomila Alleati e tre-quattromila francesi; sempre troppi comunque per risultati tanto scarsi. Dopo di che rientra in Francia per portare le sue truppe ai quartieri d’inverno.
Vittorio Amedeo II rimane però sul suo territorio com’era in precedenza, e si sa da documenti dell’Archivio di Stato, tra l’altro, che ordinò di incoraggiare i contadini a recuperare le armi rimaste sul terreno offrendo loro uno scudo per ogni moschetto “alla Biscaglina” consegnato ai suoi addetti.